La
fisica quantistica non consente di definire la geometria dell’Universo durante
i primi istanti della sua evoluzione (circa 5,4∙10−44 s), fino a quando
le sue dimensioni non siano superiori alla lunghezza di Planck, circa 1,6∙10−35
m.
Secondo
la teoria del Big-Bang l’Universo si sarebbe formato da una grande
esplosione primordiale a partire da uno stato iniziale di altissima densità e
temperatura, cui sarebbe seguita una rapida espansione.
Qui,
però, essendo un periodo di vacanze, preferisco fornire la versione data da
Italo Calvino in un racconto inserito nelle Cosmicomiche; dove tutto ebbe inizio quando la signora
Ph(i)Nko decise di fare le tagliatelle.
- Tutti in un punto -
Si capisce che
si stava tutti lì, – fece il vecchio Qfwfq, – e dove, altrimenti? Che ci
potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa
volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?
Ho
detto «pigiati come acciughe» tanto per usare una immagine letteraria: in
realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi
coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era
quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non
sotto l’aspetto del carattere, perché quando non c’è spazio, aver sempre tra i
piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd è la cosa più seccante. Quanti eravamo? Eh, non ho mai
potuto rendermene conto nemmeno approssimativamente. Per contarsi, ci si deve
staccare almeno un pochino uno dall’altro, invece occupavamo tutti quello
stesso punto.
Al
contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la
socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì
invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure
buongiorno o buonasera.
…
Era
una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. Colpa
dell’ambiente in cui ci eravamo formati. Una mentalità che è rimasta in fondo a
tutti noi, badate: continua a saltar fuori ancor oggi, se per caso due di noi
s’incontrano – alla fermata di un autobus, in un cinema, in un congresso
internazionale di dentisti –, e si mettono a ricordare di allora. Ci salutiamo
– alle volte è qualcuno che riconosce me, alle volte sono io a riconoscere qualcuno
–, e subito prendiamo a domandarci dell’uno e dell’altro (anche se ognuno
ricorda solo qualcuno di quelli ricordati dagli altri), e così si riattacca con
le beghe di un tempo, le malignità, le denigrazioni. Finché non si nomina la
signora Ph(i)Nko – tutti i discorsi vanno sempre a finire lì –, e
allora di colpo le meschinità vengono lasciate da parte, e ci si sente
sollevati come in una commozione beata e generosa. La signora Ph(i)Nko, la sola che
nessuno di noi ha dimenticato e che tutti rimpiangiamo. Dove è finita? Da tempo
ho smesso di cercarla: la signora Ph(i)Nko, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia
arancione, non la incontreremo più, né in questo sistema di galassie né in un
altro.
Sia
ben chiaro, a me la teoria che l’universo, dopo aver raggiunto un estremo di
rarefazione, tornerà a condensarsi, e che quindi ci toccherà di ritrovarci in
quel punto per poi ricominciare, non mi ha mai persuaso. Eppure tanti di noi
non fan conto che su quello, continuano a far progetti per quando si sarà di
nuovo tutti lì. Il mese scorso, entro al caffè qui all’angolo e chi vedo? Il
signor Pbert Pberd. – Che fa di bello? Come mai da queste parti? –
Apprendo che ha una rappresentanza di materie plastiche, a Pavia. È rimasto tal
quale, col suo dente d’argento, e le bretelle a fiori. – Quando si tornerà là,
– mi dice, sottovoce, – la cosa cui bisogna stare attenti è che stavolta certa
gente rimanga fuori… Ci siamo capiti: quegli Z’zu…
Avrei
voluto rispondergli che questo discorso l’ho sentito già fare a più d’uno di
noi, che aggiungeva: «ci siamo capiti… il signor Pbert Pberd…».
Per
non lasciarmi portare su questa china, m’affrettai a dire: – E la signora
Ph(i)Nko, crede che la ritroveremo?
Ah,
sì… Lei sì… – fece lui, imporporandosi.
Per
tutti noi la speranza di ritornare nel punto è soprattutto quella di trovarci
ancora insieme alla signora Ph(i)Nko. (È così anche per me che non ci credo). E in quel
caffè, come succede sempre, ci mettemmo a rievocare lei, commossi, e anche
l’antipatia del signor Pbert Pberd sbiadiva, davanti a quel ricordo.
Il
gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie tra di noi. E
neppure pettegolezzi. Che andasse a letto col suo amico, il signor De XuaeauX
era noto. Ma in un punto, se c’è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si
tratta di andare a letto ma di esserci, perché chiunque è nel
punto è anche nel letto. Di conseguenza, era inevitabile che lei fosse a letto
anche con ognuno di noi. Fosse stata un’altra persona, chissà quante cose le si
sarebbero dette dietro. La donna delle pulizie era sempre lei a dare la stura
alle maldicenze, e gli altri non si facevano pregare a imitarla. Degli Z’zu,
tanto per cambiare, le cose orribili che ci toccava sentire: padre figli
fratelli sorelle madre zie, non ci si fermava davanti a nessuna losca
insinuazione. Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei era
insieme quella di celarmi io puntiforme in lei, e quella di proteggere lei
puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del
convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l’impenetrabilità
puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più?
E
tutto questo, così come era vero per me, valeva pure per ciascuno degli altri.
E per lei: conteneva ed era contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e
abitava tutti ugualmente.
Si
stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva
pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse:
– Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi
piacerebbe farvi le tagliatelle! – E in quel momento tutti pensammo allo
spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e
indietro con il matterello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul
gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue
braccia impastavano, bianche e unte d’olio fin sopra il gomito; pensammo allo
spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i
campi per coltivare il grano, e i pascoli per le mandrie di vitelli che
avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché
il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle
nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di
stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero
volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e
nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava,
nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nko
pronunciava quelle parole: – …le
tagliatelle, ve’, ragazzi! – il punto che conteneva lei e noi tutti s’espandeva
in una raggera di distanze d’anni luce e secoli-luce e miliardi di
millenni-luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell’universo (il signor Pbert Pberd fino a Pavia),
e lei dissolta in non so quale specie d’energia luce calore, lei signora
Ph(i)Nko, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace
d’uno slancio generoso, il primo, «Ragazzi, che tagliatelle vi farei
mangiare!», un vero slancio d’amore generale, dando inizio nello stesso momento
al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla
gravitazione universale, e all’universo gravitante, rendendo possibili miliardi
di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nko sparse per i
continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate,
e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla.
(Italo Calvino, Le
cosmicomiche, ed.Einaudi, 1965)
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